Passaggio generazionale: come tutelare patrimonio e continuità aziendale
Il passaggio generazionale rappresenta una delle sfide più delicate per le imprese familiari italiane.
Secondo gli ultimi dati Nexta 2025, 4 imprenditori su 10 stanno affrontando o pianificando una transizione interna, mentre il 25% considera l’ingresso di fondi esterni o partner industriali per garantirne la continuità.
Si tratta di un processo che non riguarda solo la proprietà dell’azienda, ma anche la trasmissione di valori, responsabilità e patrimonio, con implicazioni profonde sul piano economico, legale e familiare.
Un fenomeno strutturale per l’economia italiana
In Italia, oltre l’85% delle imprese è di natura familiare.
Confcommercio stima che ogni anno circa 60.000 aziende affrontino un ricambio generazionale, ma solo una su tre riesce a superare con successo il passaggio alla seconda generazione.
Le principali cause?
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assenza di pianificazione;
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conflitti familiari;
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mancanza di chiarezza nei ruoli;
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sottovalutazione degli strumenti di tutela patrimoniale.
Il risultato è che oltre il 50% delle aziende familiari si dissolve entro il secondo passaggio generazionale, con un costo elevatissimo in termini di occupazione, ricchezza e identità territoriale.
Perché pianificare il passaggio generazionale
Pianificare non significa “decidere chi erediterà”, ma governare un processo complesso che coinvolge persone, governance, fiscalità e sostenibilità nel tempo.
Una pianificazione anticipata consente di:
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evitare conflitti tra eredi o soci;
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garantire la continuità aziendale anche in assenza del fondatore;
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ottimizzare la fiscalità e ridurre i costi di trasferimento;
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proteggere il patrimonio personale e quello d’impresa;
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favorire la crescita di nuove competenze nella generazione successiva.
Strumenti per tutelare patrimonio e continuità
Oggi il diritto italiano mette a disposizione diverse soluzioni per affrontare con metodo il passaggio generazionale. Le principali includono:
📑 Patti di famiglia
Consentono di trasferire l’azienda (o quote di essa) ad uno o più eredi, stabilendo regole precise per l’equilibrio tra i beneficiari.
È uno strumento efficace per evitare conflitti futuri e per garantire chiarezza fin da subito.
🏛️ Trust e fondazioni
Utili per separare il patrimonio aziendale da quello personale, tutelando l’impresa da eventi imprevisti, crisi o disaccordi.
In particolare, il trust familiare può garantire la gestione dei beni secondo regole stabilite dal fondatore, anche dopo la sua uscita di scena.
💼 Holding di famiglia
Permette di centralizzare la proprietà e gestire la successione con criteri di governance condivisi.
Favorisce una maggiore trasparenza decisionale e semplifica la redistribuzione dei flussi patrimoniali e fiscali.
📊 Polizze assicurative e strumenti di tutela del capitale
Rappresentano una soluzione complementare, utile per creare liquidità immediata a favore degli eredi o per sostenere fiscalmente l’operazione di passaggio.
I rischi più comuni da evitare
Molte famiglie imprenditoriali affrontano il passaggio generazionale troppo tardi o in modo informale, spesso dopo un evento improvviso.
I rischi più frequenti includono:
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frammentazione della proprietà;
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blocco decisionale;
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perdita di know-how;
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aumento del contenzioso familiare;
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erosione del valore aziendale per mancanza di leadership.
Una pianificazione tempestiva, invece, consente di trasformare la successione in un’opportunità per rinnovare l’impresa, coinvolgere giovani talenti e consolidare il patrimonio familiare.
Il ruolo del consulente nella pianificazione generazionale
Il consulente finanziario, insieme al commercialista e al notaio, svolge un ruolo cruciale:
è la figura che accompagna la famiglia nella valutazione patrimoniale, previdenziale e fiscale, aiutandola a individuare gli strumenti più adatti per garantire la solidità e la continuità dell’impresa nel tempo.
Un approccio integrato e personalizzato — che tenga conto delle esigenze familiari, della struttura aziendale e del contesto normativo — è l’unico modo per affrontare con serenità una transizione tanto delicata.
Conclusione
Il passaggio generazionale non è un evento, ma un processo che va gestito con visione, metodo e consapevolezza.
Prepararsi significa non solo tutelare il patrimonio, ma preservare la storia e il futuro dell’impresa familiare.
E come accade per ogni grande trasformazione, il tempo è la variabile decisiva:
chi pianifica oggi costruisce continuità, chi rinvia rischia di lasciare in eredità solo incertezza.
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Previdenza complementare: perché i giovani e i professionisti non possono più rimandare
L’importanza di costruire oggi la pensione di domani
La previdenza integrativa è passata da tema di nicchia a questione centrale per milioni di italiani.
Secondo l’ultimo rapporto COVIP, nel 2025 gli iscritti ai fondi pensione hanno superato i 9,9 milioni, in crescita costante rispetto agli anni precedenti.
Un dato che fotografa un cambiamento culturale: cresce la consapevolezza che la pensione pubblica, da sola, non sarà sufficiente a garantire un tenore di vita adeguato.
Ma nonostante i numeri incoraggianti, troppi giovani e professionisti indipendenti continuano a rimandare la decisione di aderire a un fondo previdenziale, spesso per disinformazione o falsa sicurezza.
Il nuovo contesto: un sistema in trasformazione
Il sistema previdenziale italiano, a ripartizione, si basa su un principio semplice: i contributi dei lavoratori attivi finanziano le pensioni di chi è in quiescenza.
Un equilibrio che però si è incrinato con l’aumento dell’età media e la riduzione della popolazione attiva.
Secondo i dati ISTAT, nel 2040 ci saranno circa 1,5 lavoratori per ogni pensionato, contro i 4 di trent’anni fa.
Ciò significa pensioni pubbliche più basse e tempi di uscita dal lavoro più lunghi.
In questo scenario, la previdenza complementare non è più una scelta “facoltativa”, ma una necessità per chiunque desideri mantenere stabilità e libertà finanziaria nel lungo periodo.
Perché iniziare presto fa la differenza
Il vantaggio principale dell’adesione precoce è la forza dell’interesse composto.
Iniziare a 25 anni invece che a 40 significa avere 15 anni in più di accumulo, che moltiplicano l’effetto di crescita dei rendimenti nel tempo.
Un esempio semplice:
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Un giovane che versa 150 € al mese per 35 anni, con un rendimento medio del 3%, può arrivare a oltre 110.000 € di capitale finale.
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Con lo stesso versamento, ma iniziando 15 anni dopo, la somma accumulata scende a circa 55.000 €.
📈 Il tempo è il più grande alleato del risparmiatore previdente.
I vantaggi fiscali della previdenza complementare
Uno degli aspetti più sottovalutati è il beneficio fiscale legato ai versamenti.
La normativa italiana consente di dedurre fino a 5.164,57 € all’anno dai redditi imponibili, riducendo direttamente l’imposta dovuta.
Inoltre:
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i rendimenti dei fondi pensione sono tassati solo al 20% (contro il 26% degli altri strumenti finanziari);
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le prestazioni finali (riscatti o rendite) beneficiano di una tassazione agevolata decrescente fino al 9% dopo 35 anni di partecipazione;
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in caso di necessità, è possibile riscattare parzialmente la posizione per spese sanitarie o acquisto prima casa.
Questi vantaggi fiscali rendono il fondo pensione uno dei pochi strumenti in Italia con una doppia leva: efficienza finanziaria e beneficio fiscale immediato.
Personalizzazione e flessibilità: il fondo non è “uguale per tutti”
I fondi pensione moderni offrono una scelta di comparti (garantito, bilanciato, dinamico, azionario) che permettono di adattare il profilo di rischio alle proprie esigenze e alla fase di vita.
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Un giovane lavoratore può optare per comparti più dinamici, con una componente azionaria maggiore, per massimizzare il rendimento nel lungo periodo.
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Un professionista vicino alla pensione può invece spostarsi gradualmente verso comparti più prudenti, per proteggere il capitale.
Molti fondi offrono oggi la riallocazione automatica (“life cycle”), che adatta il profilo d’investimento in base all’età dell’aderente, rendendo il percorso semplice e coerente nel tempo.
Giovani e professionisti: due categorie a rischio previdenziale
Secondo le analisi COVIP e Censis, oltre il 70% dei lavoratori under 35 non ha ancora aderito a un fondo pensione.
E tra i liberi professionisti, la percentuale di chi versa solo alla cassa obbligatoria supera il 60%.
Il problema è duplice:
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le pensioni future per queste categorie rischiano di essere inferiori al 50% del reddito attuale;
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la mancanza di un piano complementare oggi renderà impossibile colmare il gap previdenziale domani.
📌 Il messaggio è semplice: prima si inizia, meno costa costruirsi una pensione dignitosa.
Il ruolo del consulente nella pianificazione previdenziale
La previdenza non è solo una questione di rendimenti, ma di strategie di lungo periodo.
Un consulente finanziario aiuta a:
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individuare il comparto più adatto;
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stimare la rendita futura attesa;
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integrare la previdenza nel piano patrimoniale e familiare complessivo;
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monitorare nel tempo la coerenza tra obiettivi e rendimento reale.
Il fondo pensione, da solo, non è la soluzione: è il tassello di una pianificazione più ampia, che include liquidità, investimenti, protezione e obiettivi personali.
Conclusione
Pensare alla pensione non è un tema da “anziani”.
È un atto di responsabilità verso sé stessi.
Ogni anno che passa senza versare è un anno perso di rendimenti, vantaggi fiscali e serenità futura.
Ecco perché i giovani e i professionisti non possono più rimandare: la previdenza complementare non è solo uno strumento finanziario, è una forma di libertà.
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Mind the Gap 2025: perché gli investitori continuano a guadagnare meno dei fondi in cui investono
Quando il comportamento pesa più dei mercati
Ogni anno Morningstar pubblica il suo studio più temuto (e più istruttivo) per chi si occupa di investimenti: Mind the Gap.
L’edizione 2025, pubblicata ad agosto, fotografa con chiarezza un paradosso che si ripete da oltre vent’anni: gli investitori continuano a guadagnare meno dei fondi in cui investono.
Non per colpa dei mercati.
Non per colpa dei gestori.
Ma per colpa del comportamento.
Il “gap” tra rendimento del fondo e rendimento dell’investitore
Secondo lo studio, l’investitore medio in fondi ed ETF statunitensi ha ottenuto un rendimento del 7,0% annuo negli ultimi dieci anni, contro l’8,2% dei fondi in cui aveva investito.
Una differenza di 1,2 punti percentuali all’anno, che equivale a circa il 15% del rendimento complessivo perduto.
💬 In pratica, i fondi hanno lavorato bene.
Gli investitori un po’ meno.
Perché accade: la finanza comportamentale in azione
Il gap nasce dai flussi di denaro in entrata e in uscita dai fondi:
gli investitori comprano quando il mercato sale e vendono quando scende.
Risultato: rincorrono la performance e finiscono per entrare tardi e uscire presto.
Morningstar lo sintetizza così:
“Più gli investitori hanno transato, meno hanno guadagnato.” (Mind the Gap 2025, Morningstar Research)
Il fattore umano, più ancora delle commissioni, erode il rendimento finale.
Ed è un fenomeno sistematico, che si ripete ogni anno, in ogni mercato e su ogni categoria di investimento.
Dove il “gap” è più ampio
L’analisi distingue per tipologia di fondo:
| Categoria | Rendimento medio fondo | Rendimento medio investitore | Gap |
|---|---|---|---|
| Azioni USA | 11,6% | 11,1% | -0,6% |
| Azioni internazionali | 5,9% | 4,8% | -1,1% |
| Obbligazioni | 2,2% | 1,2% | -1,0% |
| Fondi settoriali | 8,5% | 7,0% | -1,5% |
| Fondi allocation (multi-asset) | 6,5% | 6,3% | -0,1% |
📊 I fondi più volatili e tematici — come quelli settoriali o “di moda” — mostrano i gap più ampi.
Gli investitori li utilizzano spesso in modo tattico, inseguendo performance o trend del momento, salvo poi venderli dopo una correzione.
ETF: efficienza sì, ma non immunità
Gli ETF, spesso percepiti come lo strumento perfetto per l’investitore razionale, non sono immuni da errori comportamentali.
Anzi, secondo Morningstar, il gap medio negli ETF è stato più ampio che nei fondi tradizionali:
-
ETF → rendimento medio 9,5%, investitore 7,8% → gap -1,7% annuo
-
Fondi tradizionali → rendimento medio 8,0%, investitore 6,8% → gap -1,2% annuo
Il motivo è semplice: gli ETF permettono di comprare e vendere in tempo reale, e questo incentiva l’iperattività.
L’efficienza tecnica diventa inefficienza comportamentale.
Il peso della volatilità: più si muove, più si sbaglia
Lo studio mostra una relazione diretta tra volatilità e rendimento effettivo:
più un fondo è volatile, maggiore è la probabilità che l’investitore lo gestisca male.
-
I fondi meno volatili hanno generato 9,6% annuo per l’investitore.
-
I più volatili si fermano a 3,4%.
Non perché il mercato li penalizzi, ma perché l’investitore non riesce a sopportarne gli sbalzi.
Come scrive Morningstar:
“Il rischio non è la volatilità, ma la reazione alla volatilità.”
Attivi o passivi? Non è questo il punto
Un altro mito che lo studio ridimensiona è quello della supremazia automatica della gestione passiva.
L’investitore medio nei fondi indicizzati ha registrato un gap di -1,3%, praticamente identico a quello della gestione attiva (-1,5%).
👉 Non è quindi la strategia a fare la differenza, ma il comportamento con cui viene applicata.
Il vero vantaggio dell’indicizzazione — costi bassi e semplicità — si perde se l’investitore continua a fare market timing anche con un ETF.
Mind the (behavioral) gap
Lo studio conclude che la differenza tra rendimento potenziale e rendimento reale non è economica, ma psicologica.
Il mercato offre rendimenti, ma l’investitore deve essere in grado di catturarli.
Morningstar individua sei fattori chiave che incidono sul gap:
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Frequenza delle transazioni → più si compra e vende, meno si guadagna.
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Volatilità del fondo → più il fondo “oscilla”, più è difficile restare investiti.
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Commissioni → più costi, più errori compensativi (es. cambiare fondo o ETF “per recuperare”).
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Dimensione del fondo → i grandi fondi multi-asset mostrano gap minori perché automatizzano scelte e ribilanciamenti.
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Tracking error → più un fondo si allontana dal benchmark, più cresce la tentazione di abbandonarlo nei momenti difficili.
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Comportamento collettivo → gli investitori si muovono “a branchi”, amplificando i cicli di euforia e panico.
Cosa può imparare un investitore
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Automatizzare.
I fondi bilanciati e i target-date riducono la necessità di decisioni emotive. -
Mantenere la rotta.
Evitare interventi impulsivi è più importante di scegliere il fondo “giusto”. -
Integrare il margine d’errore nei piani.
Morningstar consiglia di ridurre di circa l’1% le attese di rendimento nei piani finanziari, per compensare l’effetto comportamentale. -
Farsi accompagnare.
Un consulente non serve per “prevedere”, ma per prevenire: aiutare a restare fedeli alla strategia quando la paura o l’euforia rischiano di prendere il sopravvento.
Conclusione: il vero gap è nella testa
Il Mind the Gap 2025 è l’ennesima conferma di quanto la psicologia pesi più della finanza.
Non sono i mercati a tradire gli investitori, ma le emozioni non gestite.
La buona notizia?
Il gap può essere ridotto — con metodo, consapevolezza e disciplina.
Perché, come scrivo spesso, investire con la testa non è solo un motto: è la differenza tra partecipare ai rendimenti e perderli per strada.
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🧠 Investire nella conoscenza: perché la cultura finanziaria è la vera forma di resilienza
📉 Il paradosso italiano: un Paese che risparmia tanto ma conosce poco
Secondo lo studio “Financial Literacy and Financial Resilience: Evidence from Italy” (Laura Bottazzi e Noemi Oggero, 2023, Cambridge University Press), solo il 44% degli italiani è in grado di rispondere correttamente alle tre domande base di educazione finanziaria su:
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interesse composto,
-
inflazione,
-
diversificazione del rischio.
Il dato è inferiore alla media OCSE (57%) e colloca l’Italia agli ultimi posti in Europa per competenze finanziarie di base.
Un paradosso, se pensiamo che siamo un popolo di risparmiatori — ma non di investitori consapevoli.
💡 Cosa si intende per “alfabetizzazione finanziaria”
Essere financially literate non significa saper calcolare rendimenti complessi o conoscere i derivati.
Significa comprendere i meccanismi basilari che regolano la vita economica quotidiana: come cresce un capitale nel tempo, cosa comporta l’inflazione, perché diversificare riduce il rischio.
L’indagine mostra che chi possiede anche solo queste conoscenze prende decisioni più efficaci su risparmio, debito e previdenza.
Non si tratta solo di cultura economica, ma di una competenza di vita.
Se vuoi mettere alla prova le tue conoscenze di base, puoi farlo con il Quiz “Quello che conta” del Comitato Edufin: un test ufficiale, rapido e gratuito che misura il livello di educazione finanziaria personale.
🔍 I numeri che raccontano un’emergenza silenziosa
| Indicatore | Valore |
|---|---|
| Italiani che rispondono correttamente ai 3 quesiti (“Big Three”) | 44% |
| Donne con risposte corrette | 37% |
| Uomini con risposte corrette | 50% |
| Giovani under 35 corretti su inflazione | 50% |
| Nord-Est | 51% |
| Sud e Isole | 38% |
| Persone finanziariamente fragili (non trovano 2.000€ in emergenza) | 25,7% |
Fonte: Bottazzi & Oggero, 2023
👉 In sintesi: chi ha maggiore conoscenza finanziaria ha anche minore probabilità di trovarsi in difficoltà economica o di sovraindebitarsi.
👩🏫 Donne e giovani: i due fronti più critici
Lo studio conferma un gender gap persistente.
Il 39% delle donne risponde “non so” alle domande del test, contro il 25% degli uomini.
E la conoscenza più fragile è proprio quella sull’inflazione, nonostante le donne siano spesso le principali gestori delle spese familiari.
Sul fronte generazionale, solo un giovane su due capisce come l’inflazione eroda il potere d’acquisto.
Un dato preoccupante, soprattutto in un’epoca di tassi elevati e prezzi in aumento, in cui comprendere l’impatto reale del denaro è fondamentale per pianificare il futuro.
🌍 Italia a due velocità: Nord informato, Sud più vulnerabile
Le differenze territoriali sono marcate:
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Nord-Est: 51% di risposte corrette
-
Nord-Ovest: 48%
-
Centro: 44%
-
Sud e Isole: solo 38%
La fotografia conferma un’Italia spaccata non solo economicamente, ma anche culturalmente.
Un divario che incide direttamente sulla capacità delle famiglie di pianificare, investire e proteggersi dagli imprevisti.
💸 Meno cultura = più fragilità finanziaria
Il legame tra alfabetizzazione e benessere economico è evidente:
-
chi conosce i concetti base ha 13 punti percentuali in meno di probabilità di essere finanziariamente fragile;
-
e 10 punti percentuali in meno di sentirsi sovraindebitato.
In altre parole, la conoscenza protegge.
Non solo dal rischio di scelte errate, ma anche dallo stress finanziario, dalle trappole del debito e dall’incapacità di affrontare un imprevisto.
🧩 La cultura finanziaria come strumento di uguaglianza
Secondo gli autori, la scarsa educazione finanziaria amplifica le disuguaglianze sociali:
chi ha più conoscenza investe meglio, risparmia in modo più efficiente e costruisce sicurezza economica nel tempo.
Chi ne ha meno, invece, tende a restare indietro, aumentando la distanza tra fasce di reddito e aree geografiche.
Come sottolineano anche Gallo e Sconti (2023), l’educazione finanziaria dovrebbe diventare una politica sociale universale, perché ha effetti positivi sull’intero sistema economico.
🏫 La vera sfida: educare presto, comunicare meglio
Lo studio suggerisce di introdurre programmi di educazione finanziaria già nelle scuole e di semplificare il linguaggio.
La terminologia tecnica (“asset allocation”, “duration”, “volatilità”) spesso crea distanza.
Ecco perché — anche nella consulenza — serve una comunicazione chiara e accessibile, che aiuti le persone a capire, non a sentirsi inadeguate.
Come scrivo spesso nel mio libro Investire con la testa, l’obiettivo non è far diventare tutti esperti di finanza, ma rendere ognuno capace di riconoscere buone scelte da cattive scelte.
⚙️ Fintech e complessità: il nuovo rischio per chi non è preparato
Oggi la finanza è più accessibile — ma anche più pericolosa.
Le app di trading, i social, le “mode” speculative (crypto, AI, meme stock) rendono il confine tra informazione e illusione sempre più sottile.
Chi non possiede basi solide rischia di cadere in trappole cognitive:
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overconfidence,
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bias di conferma,
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“fear of missing out”.
Ecco perché l’educazione finanziaria non serve solo a “fare conti”, ma a difendersi da sé stessi.
🧠 Dal sapere al fare: come costruire la propria resilienza finanziaria
Ecco 5 pilastri pratici per trasformare la conoscenza in azione:
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Pianificazione: definisci obiettivi chiari e misurabili.
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Diversificazione: non concentrare mai tutto su un singolo strumento.
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Orizzonte temporale: la pazienza è la miglior arma contro la volatilità.
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Liquidità di sicurezza: tieni sempre un cuscinetto per gli imprevisti.
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Educazione continua: aggiorna le tue competenze come faresti con la salute.
Come dimostra il paper, chi applica questi principi è statisticamente meno esposto a crisi economiche personali.
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Come creare un portafoglio efficiente anche con piccole somme
💬 Conclusione: la conoscenza è il miglior investimento
L’Italia non ha bisogno solo di più prodotti finanziari, ma di più educazione finanziaria.
Un cittadino informato è un cittadino più libero, meno vulnerabile, più capace di costruire il proprio futuro.
Come scrivo spesso ai miei clienti:
“Non è il mercato a fare la differenza. È quanto conosci di te stesso e delle regole del gioco.”
🚀 Call to action finale
Vuoi scoprire come migliorare la tua pianificazione finanziaria personale?
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EBI: c’ero prima che diventasse un hashtag
Dieci anni di Evidence-Based Investing spiegati senza slogan
Oggi chiunque parli di investimenti cita l’EBI – Evidence-Based Investing.
Ma la maggior parte delle volte lo fa come si userebbe un’etichetta di marketing: per dare autorevolezza a una strategia che, nella pratica, spesso non ha nulla di “evidence-based”.
Nel tempo, l’EBI è diventato una parola di moda.
E come accade per tutte le mode, ha perso significato.
Io, invece, di EBI parlo da oltre dieci anni.
Quando non era popolare, quando non c’erano hashtag, quando la parola “ETF” non generava like.
Per me l’EBI non è mai stato un tema da cavalcare: è stato — ed è tuttora — un metodo di lavoro, una filosofia e un impegno verso la coerenza e l’onestà intellettuale.
Cos’è l’Evidence-Based Investing (e cosa non è)
Partiamo dalle basi: Evidence-Based significa basato sull’evidenza, cioè sui dati, sulle ricerche, sugli studi accademici e sui risultati osservabili, non sulle opinioni o le mode di mercato.
In ambito medico, il concetto nasce come Evidence-Based Medicine: curare in base a ciò che funziona, dimostrato scientificamente, e non a ciò che “si crede” funzioni.
Nella finanza il principio è identico: investire in base a ciò che i dati mostrano funzionare nel tempo.
E l’evidenza, oggi, ci dice alcune cose molto chiare:
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L’asset allocation conta più della selezione dei singoli titoli.
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I costi incidono più delle intuizioni.
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La disciplina e la coerenza battono la brillantezza estemporanea.
Tutto il resto — previsioni, timing, mode tematiche — appartiene al regno delle convinzioni personali, non dell’evidenza.
Quando la “finanza evidence-based” diventa moda
Negli ultimi anni molti consulenti e formatori si sono appropriati dei termini dell’EBI, ma ne hanno estratto solo i frammenti più comodi.
C’è chi lo usa per sostenere che “gli ETF sono meglio dei fondi”, chi per giustificare strategie tematiche di moda, chi per vendere piani “scientifici” costruiti su backtest perfetti… fino al 2010.
Peccato che non esiste nulla di scientifico in un piano che cambia direzione ogni volta che cambia il vento.
La scienza dell’investimento non vive di mode, ma di coerenza, rigore e continuità.
I portafogli perfetti… nel passato
Oggi chiunque, con un foglio Excel, può creare un portafoglio che “avrebbe battuto il mercato” negli ultimi 10 anni.
E sono sempre portafogli impeccabili… a posteriori.
Ma il passato non paga le pensioni.
È facile essere un genio con i dati del passato: basta spostare i pesi, rimuovere gli anni negativi e aggiungere un tema accattivante — magari l’intelligenza artificiale o il nucleare.
Il difficile è costruire un portafoglio che sopravviva al futuro, alle fasi di volatilità, ai cambiamenti dei tassi, ai cicli economici, e soprattutto, alle emozioni dell’investitore.
L’EBI come filosofia di coerenza
L’Evidence-Based Investing, applicato davvero, significa:
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selezionare strumenti efficienti, indipendentemente dall’etichetta (ETF, fondi o soluzioni gestite);
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costruire un’allocazione coerente con il profilo e l’orizzonte temporale;
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ridurre i costi dove possibile, ma senza confondere l’economicità con l’efficienza;
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mantenere la rotta anche nei momenti di discesa, quando la tentazione di “fare qualcosa” è più forte;
-
comunicare in modo trasparente e verificabile.
In sostanza, significa essere coerenti.
E la coerenza non è una moda, è una disciplina.
Dieci anni di Evidence-Based Investing sul campo
Parlare di EBI in modo “scientifico” significa unire tre dimensioni:
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Evidenza accademica: ciò che la ricerca dimostra sul lungo periodo.
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Evidenza di mercato: ciò che i dati reali mostrano ogni anno (SPIVA, Morningstar, Vanguard, etc.).
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Evidenza comportamentale: come reagiscono davvero gli investitori davanti al rischio, al guadagno e alla paura.
Nel mio lavoro quotidiano, l’EBI è questo:
un metodo pratico che tiene insieme finanza quantitativa e psicologia comportamentale, numeri e persone.
Perché un portafoglio può essere perfetto nei grafici, ma inutile nella vita reale se l’investitore non riesce a mantenerlo quando arriva il ribasso.
L’evidenza senza comportamento è solo teoria.
EBI e consulenza: il valore della trasparenza
Nel mondo digitale, dove chiunque può autoproclamarsi “esperto”, la differenza non la fa chi urla più forte, ma chi sa spiegare la complessità in modo onesto e accessibile.
Essere consulenti significa soprattutto filtrare l’informazione e trasformarla in azione coerente.
Chi applica davvero l’EBI non ha bisogno di slogan.
Ha bisogno di dati, metodo e tempo.
Tre cose che non fanno tendenza sui social, ma fanno la differenza nei portafogli reali.
La differenza tra moda e metodo
La moda del momento cambia ogni sei mesi.
Il metodo rimane.
ETF, fondi, titoli, piani assicurativi: ogni strumento può essere giusto o sbagliato a seconda del contesto.
L’importante è che sia inserito in una strategia coerente e sostenibile.
La verità è che non esiste “il portafoglio migliore”.
Esiste solo il portafoglio che puoi mantenere nel tempo, quello costruito su basi razionali, evidenze solide e una guida professionale che ti aiuti a non sabotarti nei momenti peggiori.
Conclusione: l’evidenza non è un trend, è un impegno
Parlare oggi di Evidence-Based Investing è facile: basta usare due grafici e qualche parola inglese.
Applicarlo ogni giorno con rigore, invece, è un’altra storia.
Io ho scelto di farlo dieci anni fa, quando non era ancora “popolare”.
E continuo a farlo oggi, perché credo che la finanza non debba sedurre, ma educare.
Non convincere, ma accompagnare.
Non inseguire la moda, ma costruire il futuro.
📖 EBI non è un concetto. È un impegno verso la trasparenza, la coerenza e la fiducia.
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Private Banker 4.0 – La nuova consulenza patrimoniale su misura
Introduzione: dal patrimonio alla persona
Negli ultimi anni il mondo del private banking è cambiato radicalmente.
Una volta bastava “gestire gli investimenti”. Oggi serve qualcosa di più: capire le persone dietro quei numeri.
Chi sei, che obiettivi hai, che orizzonte vuoi costruire per te e per la tua famiglia.
Essere un Private Banker 4.0 significa questo: trasformare la finanza in un linguaggio umano, con metodo, visione e coerenza.
Non più un semplice gestore, ma un partner strategico di vita.
Il nuovo ruolo del consulente patrimoniale
Nel modello americano del Wealth Management — oggi riferimento anche in Europa — il private banker è diventato regista della relazione patrimoniale:
colui che orchestra specialisti, strumenti e strategie per costruire un piano di lungo periodo attorno alla persona.
Non parliamo più solo di fondi, ETF o polizze, ma di progettazione patrimoniale integrata:
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pianificazione successoria e passaggio generazionale,
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previdenza e longevity planning,
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diversificazione tramite mercati alternativi,
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tutela assicurativa e protezione del capitale,
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ottimizzazione fiscale.
Il tutto con un obiettivo chiaro: trasformare la complessità finanziaria in serenità personale.
Un ecosistema di valore intorno al cliente
Oggi un private banker non è (e non può essere) solo.
È parte di un ecosistema — il Private Premium Experience — che mette a disposizione del cliente un network di competenze “da mondo istituzionale”:
investment advisory, insurance, private deals, analisi ESG, pianificazione successoria e previdenziale.
Un modello di consulenza multidisciplinare e indipendente, dove ogni scelta è costruita su misura.
Come un sarto della finanza, lavoro per creare architetture patrimoniali personalizzate, capaci di evolversi nel tempo insieme ai tuoi obiettivi di vita.
👉 Approfondisci come funziona una pianificazione patrimoniale completa.
Tecnologia e monitoraggio: il valore del controllo continuo
La vera innovazione nel private banking non è solo tecnologica. È nella qualità dell’analisi.
Grazie a strumenti come FactSet, Morningstar Direct e Bloomberg, oggi è possibile monitorare costantemente l’andamento del patrimonio e anticipare i rischi, invece di subirli.
Il mio approccio integra questa tecnologia con una visione umana:
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monitoraggio costante, non una fotografia statica;
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analisi reali e non storiche;
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lettura dei segnali di mercato per “manutenere” il patrimonio in tempo reale.
Questo consente di intervenire prima, mantenendo sempre coerenza tra i tuoi obiettivi di vita e le strategie adottate.
Tempo di qualità: il lusso vero
Delegare la parte operativa – analisi, report, monitoraggio – significa liberare tempo per ciò che davvero conta: la relazione.
Un private banker moderno non misura il successo in percentuali, ma in fiducia, chiarezza e tranquillità del cliente.
Più tempo per ascoltare, capire, pianificare.
Meno tempo perso tra report e numeri.
Perché la consulenza non è solo una formula, ma una relazione che cresce insieme ai tuoi obiettivi.
Da consulenza finanziaria a esperienza di vita
Chi sceglie un approccio “Private Premium” sceglie un metodo di lavoro che parte da te, non dal mercato.
Significa avere una strategia costruita intorno alla tua vita, non un prodotto calato dall’alto.
Una consulenza olistica, indipendente, agnostica, dove ogni scelta ha una logica e un perché.
Il mio ruolo è quello di facilitatore del tuo stile di vita finanziario:
accompagno te e la tua famiglia in un percorso che unisce protezione, rendimento e serenità nel tempo.
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Conclusione: la finanza fatta su misura
Il private banker di oggi è un architetto della ricchezza personale: progetta, coordina e monitora ogni aspetto del tuo patrimonio con la stessa cura che dedicheresti tu.
Perché dietro ogni portafoglio c’è una storia. E dietro ogni storia, una scelta di fiducia.
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Intelligenza artificiale: rivoluzione o bolla pronta a scoppiare?
Negli ultimi due anni, l’intelligenza artificiale (IA) è diventata l’argomento dominante in ogni settore — dalla finanza alla sanità, dall’arte alla formazione.
Ma dietro l’entusiasmo globale, si fa largo una domanda inevitabile: stiamo vivendo una rivoluzione strutturale o un’ennesima bolla speculativa come quella delle dot-com di inizio millennio?
L’hype tecnologico: un ciclo che si ripete
Ogni grande innovazione attraversa un ciclo di euforia e successiva disillusione.
Gartner lo chiama “Hype Cycle”: una curva che parte dall’innovazione, sale verso un picco di aspettative irrealistiche, crolla nel disincanto e infine risale verso una fase di maturità.

Fonte: Gartner
Oggi, l’intelligenza artificiale — in particolare la IA generativa (ChatGPT, DALL-E, Midjourney) — sembra trovarsi proprio al culmine di quel picco.
Le valutazioni di mercato di alcune società “pure AI” sono schizzate in alto in pochi mesi, e centinaia di startup raccolgono capitali senza ancora un modello di business sostenibile.
Siamo nel pieno dell’entusiasmo collettivo.
IA generativa, applicativa e infrastrutturale: non tutto è uguale
Per comprendere dove finisce l’hype e dove inizia la sostanza, bisogna distinguere tra tre categorie:
| Tipologia di IA | Esempi | Livello di maturità | Rischio di bolla |
|---|---|---|---|
| Generativa | ChatGPT, Gemini, Midjourney | Alta visibilità ma ricavi incerti | Elevato |
| Applicativa | Robotica industriale, sanità predittiva, automazione finanziaria | In crescita | Medio |
| Infrastrutturale | Chip per IA (Nvidia, AMD), cloud AI, modelli edge | Solida base tecnologica | Basso |
Le soluzioni generative sono quelle che attirano l’attenzione mediatica — e anche la maggior parte dei capitali “emotivi”.
Ma la vera trasformazione sta avvenendo sotto la superficie, nelle infrastrutture e negli usi pratici che portano reale produttività.
Segnali che ricordano una bolla
Per capire se un settore sta gonfiando una bolla, possiamo osservare alcuni indicatori classici:
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Valutazioni scollegate dai fondamentali – aziende senza utili ma con capitalizzazioni miliardarie.
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FOMO degli investitori retail – la paura di restare fuori spinge ad acquistare “perché lo fanno tutti”.
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Sovraesposizione mediatica – ogni nuovo annuncio viene amplificato come una rivoluzione.
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Assenza di regolamentazione chiara – privacy, copyright e sicurezza dei dati ancora nebulosi.
-
Costi operativi enormi – addestrare modelli AI richiede energia e infrastrutture costose.
Tutti elementi che, se combinati, possono generare instabilità nel medio termine.
L’altro lato della medaglia: una rivoluzione irreversibile
Nonostante i segnali di euforia, l’intelligenza artificiale non è solo una moda.
Diversi studi (McKinsey, PwC, BCG) stimano che entro il 2030 l’IA possa aggiungere fino al 15% del PIL globale, grazie all’aumento di produttività e automazione.

Fonte: PwC, “Sizing the prize” report, 2023
Già oggi:
-
le banche usano l’IA per prevenire frodi e ottimizzare la gestione patrimoniale;
-
le aziende riducono costi operativi grazie all’automazione intelligente;
-
la ricerca medica accelera grazie all’elaborazione di dati genomici;
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i sistemi di previsione economica migliorano nella gestione del rischio.
Questa non è una fiammata passeggera. È un cambiamento strutturale che sta modificando il modo stesso in cui produciamo valore.
Cosa può accadere nei prossimi anni
Nel breve termine, è probabile che assisteremo a una “pulizia naturale” del mercato: molte startup nate sull’onda dell’hype falliranno, mentre i player solidi consolideranno il proprio vantaggio competitivo.
È accaduto con Internet, con la blockchain e accadrà anche con l’IA.
Nel lungo periodo, le tecnologie che resisteranno avranno tre caratteristiche fondamentali:
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Sostenibilità economica (ricavi reali, margini, scalabilità)
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Efficienza energetica e hardware dedicato
-
Integrazione trasversale nei processi aziendali e nei servizi pubblici
La vera sfida non sarà “creare una nuova IA”, ma integrare l’IA in modo intelligente e responsabile.
L’investitore consapevole davanti alla rivoluzione AI
Per chi investe, oggi più che mai serve disciplina e metodo.
Ecco alcune linee guida per non cadere nella trappola dell’entusiasmo:
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Distinguere hype da valore: evita prodotti o fondi che cavalcano il tema IA solo per marketing.
-
Guardare ai fondamentali: ricavi, crescita organica, vantaggi competitivi.
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Diversificare l’esposizione: non tutto in Nvidia o OpenAI — anche i settori collegati (cloud, semiconduttori, cybersecurity, energia) sono parte del trend.
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Mantenere un orizzonte di lungo periodo: le vere rivoluzioni non durano mesi, ma decenni.
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Considerare l’etica e la sostenibilità: l’IA responsabile sarà un fattore ESG sempre più centrale.
Come sempre, investire con la testa significa comprendere il contesto, non inseguire le mode.
Conclusione
L’intelligenza artificiale non è (solo) una bolla, ma sicuramente è un fenomeno che va osservato con la giusta lucidità.
Come ogni innovazione, attraverserà fasi di euforia e correzione, ma il suo impatto strutturale sull’economia e sulla società è ormai irreversibile.
Chi saprà affrontarla con equilibrio, conoscenza e visione di lungo periodo, ne trarrà i maggiori benefici.
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Investire con la testa, sempre.
Gli italiani e la finanza: dalle paure quotidiane alle soluzioni concrete
Una mappa dei timori finanziari degli italiani
Le paure economiche degli italiani si possono sintetizzare in cinque cerchi principali:
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Costi quotidiani: bollette, carburante, spesa alimentare. L’aumento dei prezzi negli ultimi anni ha inciso in modo diretto sulla vita delle famiglie, portando molti a tagliare consumi e rinviare progetti importanti, come viaggi o ristrutturazioni.
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Reddito reale: il rischio che lo stipendio non basti più a mantenere lo stesso stile di vita è diventato tangibile. Secondo l’OCSE, negli ultimi cinque anni l’Italia ha registrato una delle peggiori performance salariali in Europa.
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Rischio di investimento: molti risparmiatori preferiscono non esporsi per timore di perdite, ignorando che l’inazione è spesso la scelta più costosa.
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Pensioni: il sistema previdenziale italiano è percepito come incerto, e questo alimenta sfiducia e rassegnazione.
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Conoscenza finanziaria: la mancanza di alfabetizzazione porta a decisioni frettolose o all’eccesso di prudenza.
Dati 2019–2025: inflazione e incertezza
La traiettoria dal 2019 a oggi mostra chiaramente come il contesto macroeconomico abbia cambiato la percezione del rischio:
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2019–2020: l’Italia conviveva con tassi a zero e un’inflazione marginale. Le famiglie si chiedevano come far fruttare i propri risparmi senza rischiare troppo.
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2021–2022: la fiammata inflazionistica dovuta a pandemia, crisi energetica e tensioni geopolitiche ha portato l’indice dei prezzi al consumo a livelli record. Non era più una questione di “rendimenti bassi”, ma di sopravvivenza del potere d’acquisto.
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2023–2024: la discesa parziale dei prezzi ha attenuato le tensioni, ma non ha ridato fiducia. Il potere d’acquisto perso non si recupera in pochi mesi, e molte famiglie hanno visto erosi anni di risparmi.
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2025: la preoccupazione resta alta. I dati Censis e ISTAT mostrano un Paese ancora fragile, dove nove italiani su dieci dichiarano di avere timori concreti per la propria situazione economica.
Come i media raccontano queste paure
Ecco alcuni titoli emblematici:
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“Bollette da record, famiglie costrette a tagliare i consumi” (Corriere della Sera, 2022)
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“Il 78% degli italiani teme per la pensione” (Intermedia Channel, 2025)
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“Il 55% degli italiani ha paura di non avere denaro sufficiente per il futuro” (Family Banker, 2024)
La narrazione rinforza l’idea di precarietà: meglio tenere i soldi fermi che rischiarli. Ma è davvero così?
Soluzioni concrete per passare all’azione
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Protezione dall’inflazione
L’inflazione non è solo una statistica: è un “nemico silenzioso” che riduce progressivamente il valore del denaro. Investire una parte del portafoglio in strumenti indicizzati ai prezzi, come BTP Italia o fondi inflation-linked, permette di difendere almeno in parte la propria capacità di spesa. -
Disciplina del risparmio
Rimandare è il vero rischio. Un PAC è uno strumento semplice ma potentissimo: obbliga a risparmiare con regolarità e trasforma la volatilità da nemico ad alleato. Acquistando in momenti diversi del mercato si riduce l’impatto dei ribassi e si costruisce capitale nel tempo. -
Gestione del rischio
La diversificazione non è un concetto astratto ma la chiave per ridurre l’impatto emotivo delle oscillazioni. Avere in portafoglio strumenti decorrelati, con diversi orizzonti temporali, significa accettare piccoli movimenti per evitare scossoni devastanti. I dati SPIVA dimostrano come restare investiti sia più premiante che tentare di anticipare i mercati.
👉 Un approfondimento su questi temi lo trovi anche nel mio libro Investire con la testa – Come gestire le emozioni, evitare gli errori e costruire un piano finanziario solido, pensato proprio per guidare gli investitori a superare paure e improvvisazioni.
Conclusione
Le paure degli italiani sono reali e giustificate. Ma la paralisi è la peggiore risposta: senza un piano, inflazione e tempo erodono inevitabilmente il patrimonio.
Il vero antidoto alla paura è la strategia: costruire un portafoglio equilibrato, un piano previdenziale coerente e, soprattutto, un approccio meno emotivo e più consapevole.
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ETF contro fondi attivi: un confronto reale o un argomento di marketing?
Negli ultimi anni il confronto tra ETF e fondi attivi è diventato un cavallo di battaglia per molti consulenti.
Le statistiche (SPIVA, Morningstar, ESMA) parlano chiaro: la maggior parte dei fondi attivi non riesce a battere i propri indici di riferimento sul lungo periodo.
Ma attenzione: se il dato è corretto, il modo in cui viene usato nella comunicazione è spesso fuorviante.
Molti consulenti che propongono portafogli costruiti con ETF si presentano come campioni della “gestione passiva”, quando in realtà praticano gestione semi-passiva o attiva con ETF.
Il risultato? Un messaggio semplificato e rassicurante per il cliente, ma lontano dalla verità.
1. Da dove nasce il confronto ETF vs fondi attivi
-
Studi SPIVA: negli USA oltre il 90% dei fondi attivi large cap ha sottoperformato l’S&P 500 a 15 anni.
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Morningstar Active/Passive Barometer: in Europa dati simili, con performance inferiori per la maggior parte dei fondi attivi al netto dei costi.
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ESMA: conferma che i costi elevati dei fondi UCITS riducono la probabilità di battere gli indici.
👉 Dati solidi, ma presentati spesso come: “Fondi attivi perdono, ETF vincono, quindi scegliamo ETF e il gioco è fatto”.
2. Il gioco di marketing dei consulenti
Molti consulenti che propongono portafogli di ETF:
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Usano il termine “gestione passiva” come bandiera.
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Confrontano un indice (es. MSCI World) con i fondi attivi che cercano di batterlo.
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Mostrano la sottoperformance dei fondi.
-
Concludono: “Con gli ETF sei più efficiente e vinci sempre”.
➡️ Peccato che quella non sia gestione passiva pura, ma semi-passiva: asset allocation, copertura cambio, ribilanciamenti e ottimizzazione fiscale sono scelte attive.
3. Perché il confronto è fuorviante
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Paragone non simmetrico
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Da un lato c’è un indice, senza costi né scelte.
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Dall’altro fondi attivi con costi elevati e mandate diversi.
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Si evita la parola semi-passiva
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Il consulente preferisce dire “passiva” per sembrare più onesto.
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Si ignora il vero valore
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Non è l’ETF in sé a fare la differenza, ma il processo di asset allocation e disciplina.
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4. Esempio pratico
Confrontiamo l’MSCI World con fondi azionari globali attivi:
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L’indice negli ultimi 15 anni ha reso circa il 9% annuo.
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La media dei fondi attivi globali si è fermata al 7%.
👉 Conclusione tipica: “Meglio l’ETF”.
Ma nella pratica il portafoglio del cliente non sarà mai solo MSCI World: ci saranno obbligazioni, emergenti, duration, valute. Tutte scelte attive.
5. Quando l’ETF diventa “attivo travestito”
Molti consulenti parlano di passività ma poi inseriscono:
-
ETF fattoriali (value, momentum, low vol).
-
ETF tematici (AI, energia green, robotica).
-
Rotazioni settoriali o geografiche.
👉 Questa non è gestione passiva: è gestione attiva con ETF.
6. Quando il consulente diventa gestore attivo con ETF
Se un consulente spinge troppo la discrezionalità – scegliendo settori, temi, fattori, valute, tempi di ingresso e uscita – smette di fare semi-passiva e diventa a tutti gli effetti un gestore attivo con ETF.
👉 Ma siamo sicuri che un consulente che fa il “gestore attivo” sugli ETF sia davvero capace di fare meglio di un fondo attivo tradizionale?
-
I fondi attivi hanno team di analisti, processi strutturati, strumenti di ricerca.
-
Un consulente singolo rischia di cadere nelle stesse trappole di qualsiasi investitore retail: market timing, mode di mercato, scelte emotive.
-
Con gli ETF i costi sono bassi, ma se le scelte sono sbagliate non basta a salvare il rendimento.
➡️ È il rischio della sindrome del gestore: partire vendendo la passività, per poi cedere alla tentazione di dimostrare il proprio valore con scelte attive.
7. ETF e bias comportamentali: il paradosso della consulenza
Gli ETF sono nati per:
-
Ridurre i costi.
-
Limitare gli errori comportamentali degli investitori (evitare market timing e trading eccessivo).
Ma se un consulente usa gli ETF per fare semi-passiva o addirittura attiva, rischia di introdurre proprio quei bias che gli ETF volevano eliminare:
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Market timing mascherato (aumentare o ridurre l’azionario in base al momento).
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Overtrading (rotazioni continue tra settori o temi).
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Home bias/narrative bias (scelte dettate dalle mode del momento).
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Illusione di controllo (far credere al cliente che “muoversi spesso” significhi protezione).
👉 Paradosso: lo strumento nato per semplificare e togliere emotività diventa il mezzo con cui si introducono più complessità e comportamenti irrazionali.
8. Il confronto corretto: processo vs processo
Il vero paragone non è “ETF vs fondi attivi”, ma:
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Processo semi-passivo con ETF (asset allocation chiara, disciplina, fiscalità).
VS -
Processo attivo tradizionale (stock picking, market timing, discrezionalità).
👉 Solo così il cliente capisce la differenza reale.
Conclusione
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Il confronto ETF vs fondi attivi è spesso usato come strumento di marketing.
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Ma se il consulente diventa un gestore attivo con ETF, il rischio è replicare gli stessi errori dei fondi attivi.
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Peggio ancora: così facendo si rischia di aumentare l’incidenza dei bias comportamentali, proprio quelli che gli ETF erano nati per ridurre.
La vera differenza non è tra ETF e fondi attivi, ma tra chi ha un processo trasparente e disciplinato e chi si affida a slogan e tatticismi.
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Vuoi capire se la tua strategia con ETF è davvero coerente con i tuoi obiettivi, o se nasconde più bias e discrezionalità di quanto immagini?
👉 Scrivimi: costruiremo insieme un processo semplice, disciplinato e trasparente, che non si limiti agli slogan ma punti alla sostenibilità di lungo periodo.
Dalla filosofia di Bogle alla realtà: cos’è davvero la gestione semi-passiva con ETF
John Bogle, fondatore di Vanguard e padre della gestione passiva, diceva:
“Non cercare l’ago nel pagliaio. Compra l’intero pagliaio.”
La sua visione era rivoluzionaria: smettere di rincorrere i titoli vincenti e possedere l’intero mercato a costi minimi.
Questa è la definizione originaria di gestione passiva: comprare l’indice di mercato, mantenerlo, ridurre i costi, eliminare ogni tentativo di market timing.
Ma c’è un problema: nella realtà nessun consulente propone davvero questo approccio, e quasi nessun investitore riesce ad applicarlo.
La gestione passiva pura secondo Bogle
-
Un singolo fondo indicizzato che replica l’intero mercato.
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Nessuna selezione settoriale, nessuna copertura valutaria, nessun ribilanciamento “intelligente”.
-
Costi minimi e disciplina assoluta.
-
L’investitore compra, detiene e dimentica.
👉 In teoria, questa è la forma più efficiente e coerente di gestione passiva.
Perché nessuno la propone davvero
-
Consulenti: non la presentano mai come unica soluzione, perché nella pratica devono costruire portafogli che rispondano a esigenze reali (orizzonte temporale, fiscalità italiana, diversificazione obbligazionaria, obiettivi di vita).
-
Investitori: pochi riescono a mantenere un unico ETF globale per 20-30 anni senza mai intervenire. Alla prima crisi o alla prima moda di mercato, scatta la tentazione di “fare qualcosa”.
-
Industria: preferisce proporre soluzioni più articolate, con più strumenti e cambi periodici, perché così il cliente percepisce “attività” e “cura” continua. Un singolo ETF buy & hold darebbe l’idea di immobilità e semplicità estrema — difficile da vendere in un mondo dove tutti cercano novità e complessità.
👉 Risultato: la gestione passiva pura resta un ideale teorico. Nessun consulente la applica davvero nella realtà.
Il compromesso più vicino: Vanguard LifeStrategy
Gli unici portafogli che si avvicinano concretamente alla filosofia di Bogle sono i Vanguard LifeStrategy:
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Portafogli bilanciati (20%, 40%, 60%, 80% azionario).
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Diversificazione globale interna.
-
Ribilanciamento automatico.
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Struttura chiara e costi contenuti.
➡️ Ma anche qui, la “purezza” è relativa: c’è una scelta iniziale di asset allocation e un ribilanciamento meccanico deciso da Vanguard.
E soprattutto, pochissimi consulenti li propongono come unica soluzione ai clienti.
La gestione semi-passiva: la realtà dei portafogli con ETF
È la forma che domina davvero:
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Uso di ETF indicizzati come strumenti principali.
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Scelte attive sull’asset allocation (azionario, obbligazionario, emergenti, duration).
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Ribilanciamenti periodici (calendario o bande).
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Possibile copertura del rischio cambio.
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Ottimizzazione fiscale (soprattutto in Italia, con gli ETF armonizzati UCITS).
👉 È semi-passiva perché usa strumenti passivi, ma all’interno di un processo di scelte attive.
Il valore sta nella trasparenza, nella disciplina e nel controllo dei costi.
La gestione attiva con ETF: quando la discrezionalità prende il sopravvento
Qui l’ETF diventa solo un veicolo per fare gestione attiva:
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Rotazioni settoriali e geografiche.
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ETF tematici (AI, green energy, clean tech).
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Timing di mercato (ridurre azionario in correzioni, aumentarlo nei rally).
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Overlay di derivati o strategie fattoriali dinamiche.
👉 È attivo a tutti gli effetti, solo che al posto dei singoli titoli si usano ETF.
La vera questione: processo, non etichette
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Parlare di “gestione passiva” è rassicurante ma fuorviante.
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Parlare di “attiva” spaventa perché fa pensare a costi eccessivi e tentativi di battere il mercato.
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La verità è che ciò che conta è il processo: avere regole chiare, costi bassi, disciplina, e adattare il portafoglio all’investitore.
👉 La gestione semi-passiva, ben fatta, è oggi l’approccio più realistico ed efficace per la maggior parte degli investitori.
Conclusione
La lezione di Bogle è ancora attuale: meno costi, più disciplina, niente rincorsa ai trend.
Ma il mondo reale impone compromessi.
I consulenti non propongono mai la gestione passiva pura, perché non si adatta agli investitori e non risponde a esigenze pratiche.
Non esistono portafogli completamente passivi.
Esistono portafogli costruiti con strumenti passivi, ma gestiti con scelte attive più o meno dichiarate.
👉 La vera differenza non è tra attivo e passivo, ma tra chi ti vende slogan e chi ti costruisce un processo trasparente e coerente con i tuoi obiettivi.
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